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Testi di Fantascienza di Jenny Russo e Adriano Basso 3E

Testi di fantascienza di Jenny Russo e Adriano Basso (IIIE, 2018-19). Gli alunni hanno continuato un incipit proposto dal docente.

Incipit

Gli odori di castagne e di salsicce arrostite permeavano l’aria. Le risa dei bambini, il ciarlare allegro dei ragazzi e delle ragazze, gli sguardi divertiti degli anziani seduti sulle panche lungo la stretta via del borgo addobbato a festa trasmettevano un’allegria contagiosa.

Michele sorseggiava il bicchierino di vino cotto assaporando il dolce calore del liquido ambrato. Sua moglie sgranocchiava un dolcetto alla crema di castagne, mentre la piccola Elena succhiava un pezzo di focaccia sorridendo furbescamente e indicando ogni tanto gli allegri passanti.

“Che bel pomeriggio!” pensava Michele e posò una carezza sulla guancia paffuta della bambina che sorrise arricciando il naso.

Poi udì delle voci concitate e vide un tipo dal viso nascosto in una maschera nera sfrecciare tra la gente, abbattendo uomini e donne a forza di spallate. Dietro di lui veniva un gruppo di ragazzi del posto con le facce atteggiate in una feroce smorfia d’odio e brandendo minacciose spranghe di ferro. Uno gridava a squarciagola: “Fermati, sporco mutante! Assaggia i nostri colpi, se hai coraggio”. Un altro ringhiava: “Tornatene nella zona speciale e non provare a rovinare la nostra festa!”.

Il fuggitivo sembrava guadagnare terreno sugli inseguitori. Poi un uomo, che in compagnia di quella che doveva essere sua moglie o una compagna stava ascoltando i canti allegri e piccanti di un gruppo folk, si girò e allungò il suo piede al passaggio del malcapitato che ruzzolò per terra battendo violentemente la testa più di una volta. Rimase a terra stordito, emettendo gemiti doloranti da sotto la maschera. Le persone, tra le quali Michele, erano rimaste esterrefatte, ferme come statue a guardare la scena.

L’uomo che aveva arrestato quella folle corsa si era intanto mosso verso il fuggitivo e aveva cominciato ad inveirgli contro: “Maledetto tre-occhi! Prendi questo!”. Gli mollò un calcio sul costato e si sentirono preoccupanti scricchiolii. Intanto gli inseguitori erano sopraggiunti e non fecero di certo riposare le loro spranghe.

Tutte le altre persone stettero ferme. Alcune incoraggiavano gli aggressori, altre erano inorridite dalla scena. Michele fece voltare sua moglie e coprì il volto della figlia che intanto aveva cominciato a piangere. Come tanti altri, non intervenne a fermare il massacro. Pensava solamente: “Un’altra volta! Tutta questa storia dei mutanti mi ha stancato. Se solo non ci fossero!”.

Elaborato di Jenny Russo

Dopo quel terribile fatto, la famiglia Parisi tornò a casa e Lara, moglie di Michele, si mise a cucinare la cena a base di würstel e patate bollite.

Michele intanto guardava il telegiornale in salotto.

«Mutante scappa dalla C Anormaly!» annunciava la conduttrice tenendo un paio di documenti sulle mani.

L’uomo si alzò dalla poltrona e si diresse pensoso sul balcone, dove si accese una sigaretta. Inalò un po’ di fumo per poi espirarlo.

«Stupidi scienziati» disse con l’amaro in bocca mentre appoggiava una mano sulla ringhiera. «Se non sanno badare a questi mostri, perché cavolo continuano a crearli?».

Michele, per lo stress, finì velocemente la sigaretta e la spense nel posacenere. Si chiedeva come mai la gente si fosse offerta per quegli stupidi esperimenti.

“Avevano voglia di morire” pensava.

La C Anormaly, inoltre, pagava le famiglie delle persone che accettavano questo folle esperimento. Magari pensavano di ottenere cose straordinarie come essere onorati o rispettati da tutti o diventare milionari. Pensavano che potessero essere persone speciali dopo la “trasformazione”.

No. Erano solo stati usati. E ogni volta che l’esperimento falliva venivano chiusi in gabbie perché considerati pericolosi.

Tra le persone che avevano accettato c’era anche un amico di Michele, Giacomo, che, dopo aver perso la figlia, aveva iniziato a pensare alla morte. Che sia successo ciò anche alle altre persone?

I pensieri di Michele furono spenti dalla voce amorevole e calda della moglie che lo chiamava per la cena.

Michele rientrò, chiudendosi la portafinestra alle spalle, mentre inalava con le sue narici il dolce profumo delle patate bollite. Si sedette a capotavola, come suo solito, e iniziò ad assaporare quella delizia preparata dalla moglie.

Elena era ancora scossa dall’accaduto e mangiava di malavoglia. Si fermò e girò la testa verso il padre.

«Papi, perché li odiamo così tanto?» chiese la piccola trattenendo le lacrime.

Michele rimase stranito ascoltando quella domanda: la figlia non si era mai interessata ai mutanti. Perché dovrebbero interessarle adesso?

«Sono semplicemente diversi» tagliò corto il padre mettendosi un pezzo di würstel in bocca.

«Ma disprezzare i mutanti, non è come il razzismo?». La piccola, pur avendo sei anni, era abbastanza intelligente per capire queste cose.

«Perché questa domanda, Elena?» si intromise Lara.

«Solo… In un certo senso loro sono… Noi?» rispose Elena masticando un piccolo pezzo di patata.

Ciò che aveva detto la piccola scosse entrambi i genitori che si guardarono negli occhi. Non pensavano che la loro bambina potesse fare simili ragionamenti a soli sei anni.

Michele ruppe il silenzio dicendo alla figlia che la società di quei tempi era complicata e che molte cose le avrebbe capite solo quando sarebbe stata più grande.

Elena non rispose. Si limitò a continuare a mangiare. Così fecero il padre e la madre e il resto della cena fu avvolto da un silenzio tombale. L’unica cosa che spezzava quel momento di riflessione era la lavatrice accesa prima da Lara.

Il giorno dopo Elena andò a scuola. Mentre ascoltava la maestra, la piccola guardava fuori dalla finestra. Stava iniziando a nevicare. La bambina sorrise e riportò lo sguardo verso l’insegnante.

Dopo un po’ la campanella dell’intervallo suonò e tutte le classi uscirono a giocare con la neve.

Elena si mise accanto ad un albero. Non aveva molte amiche e l’unica che aveva avuto, la figlia di Giacomo, era morta. La piccola finì di mangiare la sua merenda e vide qualcuno nella foresta tra la bianca neve. La bambina, molto curiosa, non resistette all’idea di sapere chi fosse. Quindi, dopo aver dato un’occhiata alle maestre che discutevano, si incamminò tra gli alberi inseguendo la misteriosa creatura.

Dopo aver camminato a lungo, la trovò mentre giocava con un pallone.

Elena le si avvicinò e la salutò. Era una bambina come lei. Aveva capelli a caschetto neri e tre occhi senza pupilla, completamente bianchi. La pelle era di uno strano colore violaceo come la carne in decomposizione. La piccola indossava un abitino strappato e sporco di colore grigiastro, il cui stile era simile a quello della casacca che si faceva solitamente indossare ai pazienti dell’ospedale. Era una mutante.

Elena non sembrava spaventata; anzi, le sarebbe piaciuto conoscerla.

L’altra bimba posò il pallone a terra e si presentò: «Ciao! Mi chiamo Sara».

La voce della bambina mutante era bassa e roca, simile a quella di qualcuno che ha la tosse.

Elena si presentò e le due iniziarono a parlare.

Passarono le ore, finché il sole iniziò a calare per dare spazio alla notte. La bambina sapeva che i suoi genitori sarebbero stati preoccupati e perciò dovette, con dispiacere, salutare Sara.

Casa sua non era molto lontana e ci arrivò in fretta. L’edificio era illuminato dalle luci delle macchine della polizia e i genitori parlavano con una persona. Lara stava piangendo e Michele era preoccupato e arrabbiato.

Elena corse verso di loro chiamandoli. Lara sorrise alla vista della figlia e la strinse in un forte abbraccio.

«Ero così preoccupata!» esclamò, tra un singhiozzo e l’altro, la madre.

La polizia se ne andò e i tre rientrarono.

«Dove sei stata?» chiese il padre quasi urlando.

«Tranquilli!» esclamò la bimba sorridendo. «Sono solamente stata nella foresta!».

I genitori si sbiancarono in viso.

«Tesoro! Lo sai che la foresta è pericolosissima! Potresti incontrare un mutante!» disse la madre ancora scioccata.

«Infatti ne ho incontrato uno» rispose la bambina ingenuamente.

Lara quasi non svenne. Michele la tenne prima che potesse cadere e le disse che era meglio se andava a riposarsi. La moglie accettò il consiglio e lasciò il marito e la figlia soli in salotto.

Elena raccontò tutto a Michele che si limitava ad ascoltare e ad annuire. Quando ebbe finito, il padre disse che non si sarebbe dovuta inoltrare nella foresta da sola e, per questo, la figlia si scusò.

«Papà… Pensi ancora che i mutanti siano pericolosi?» chiese la piccola, che al discorso aveva aggiunto ciò che Sara le aveva raccontato su come vivevano i mutanti nella zona speciale.

Michele ci pensò un po’, poi concluse: «No, non sono pericolosi».

Elena sorrise ed esclamò: «Te lo avevo detto!».

Michele era veramente orgoglioso della figlia. Gli aveva fatto cambiare idea sui mutanti: in fondo erano pur sempre esseri viventi come loro. Incredibile come le semplici parole di una bambina potessero insegnare così tanto ad un adulto.

Il giorno dopo Elena portò il padre a vedere Sara. Quando arrivarono, la piccola mutante abbracciò l’amica per poi chiedere chi fosse l’uomo accanto a lei. Elena le riferì tutto e l’altra bimba sprizzava gioia da tutti i pori.

Michele aveva intenzione di parlare con i giornalisti: tutti dovevano sapere la verità.

Le persone che accettavano di fare da cavie per gli esperimenti, dopo che questi ultimi fallivano, venivano rinchiuse in orribili e piccoli ambienti sotterranei senza né cibo né acqua. Di sorveglianza non ce n’era molta e alcuni potevano benissimo scappare, ma se per caso venivano riacciuffati, venivano sottoposti ad altri esperimenti e a torture atroci. La maggior parte di loro moriva, mentre coloro che sopravvivevano, pur in fin di vita, venivano risbattuti in celle più controllate, dato che gli esperimenti potevano influire sull’aggressività del mutante e lo rendevano più ostile di quanto già non lo fosse. La percentuale di coloro che rimanevano in vita era molto bassa, mentre quella di coloro che riuscivano a scappare lo era ancora di più. Sara rientrava in questa percentuale. La polizia e gli agenti della C Anormaly controllavano solo fino ai confini della città; perciò l’unico posto sicuro era nel folto della foresta.

Michele si stava incamminando per uscire dal bosco, finché non sentì uno sparo. Proveniva da dove erano rimaste Sara ed Elena.

L’uomo corse per tornare indietro e, appena arrivò, vide una scena a cui non avrebbe voluto assistere. C’erano tre agenti di polizia con dei fucili. Distesa sulla neve c’era la piccola mutante e accanto a lei Elena piangente. Sara aveva gli occhi spalancati e la bocca semiaperta dalla quale uscivano rivoli di sangue verde. La neve accanto a lei si era anch’essa colorata di verde.

Uno degli agenti puntò il fucile contro la figlia di Michele. Non appena il padre urlò “Fermi!”, il poliziotto sparò e colpì in testa Elena.

Michele corse verso la figlia, la prese in braccio, e chiese urlando: «Perché l’avete uccisa?».

«Era dalla parte dei mutanti» rispose imperturbabile l’agente che aveva sparato.

«E con ciò? I mutanti sono esseri umani, è un omicidio ucciderli!» gridò Michele mentre le lacrime sgorgavano sulle sue guance.

«I mutanti sono esseri ostili che un giorno causeranno l’estinzione dell’umanità» gli rispose quello al centro. «Noi abbiamo il dovere di uccidere tutti i mutanti…». Poi puntò il fucile contro Michele e disse: «E tutti coloro che li aiutano e li nascondono>.

L’agente fece fuoco e colpì in pieno Michele che cadde a terra inerte.

Qualche settimana dopo, in un edificio perso nella foresta e occupato da un gruppo di mutanti che era riuscito a scappare dalla zona speciale, quello che sembrava essere un capo si rigirava tra le mani una pistola rubata ad un poliziotto, guardava il vuoto e pensava agli omicidi a cui i principali giornali avevano dato ampio spazio. La misura gli sembrava colma e iniziò a pianificare la vendetta.

“Gli umani – proclamava a vari mutanti riuniti intorno a lui – sono così testardi e non capiscono niente di noi. È tutta colpa loro! Ma adesso siamo stufi. Ci vendicheremo! Volevano una nuova specie vivente? Allora l’avranno! Ma sarà questa nuova specie vivente a sostituire gli esseri umani!”.

Elaborato di Adriano Basso

Il massacro continuò, mentre alcuni spettatori già rientravano in casa, avendo ormai capito che la festa era finita.

Elena non la smetteva di piangere, così Marta, la moglie di Michele, propose al marito di tornare a casa. Michele disse alla moglie di incamminarsi: lui sarebbe giunto dopo.

Provava un certo senso di inquietudine, o forse di pena, per quella creatura che gli aggressori avevano da poco promosso da tre-occhi ad incarnazione di Satana.

Gli aggressori continuarono a picchiare il disgraziato per un’altra mezz’ora, così alla fine rimase solo Michele a fare da spettatore alla scena. Era incuriosito, Michele. Era incuriosito da come quel mutante, dopo tutti quei calci, quelle sprangate, quei pugni sullo stomaco, non solo fosse ancora vivo, ma cercasse di lottare disperatamente, divincolandosi e tirando pugni a destra e a manca.

Ad un certo punto Michele sentì il mutante soffocare un gemito rivolto a lui: «Aiutami, aiutami!».

Michele non obbedì.

Ad un certo punto persino gli aggressori erano stanchi di picchiare il disgraziato. Allora lui, il mutante, si alzò in piedi, come se tutte quelle botte non l’avessero minimamente scalfito. I suoi occhi verdi iniziarono a brillare, prima debolmente, quasi impercettibilmente. Poi più forte. Sempre più forte. Alla fine Michele, per qualche minuto, rimase accecato e non vide più niente.

Quando il bagliore svanì, Michele si accorse che davanti a lui non c’era più nessuno, né aggressori né aggredito. A terra giaceva soltanto una spranga di ferro spezzata in due.

Michele non riusciva a spiegarselo. In verità non riusciva a spiegarsi molte cose: come aveva fatto quel mutante ad uscire dalla zona speciale? Dov’era adesso? Che fine avevano fatto lui e i suoi aggressori? E così via.

Decise di tornare a casa, anche se provava una certa inquietudine, che non lo abbandonò lungo il tragitto del ritorno.

Mentre cenava con la sua famiglia, Michele prestò molta attenzione al TG, interamente dedicato al fatto della festa paesana da cui era appena tornato.

A quanto pareva, il mutante fuggito era catalogato nel registro della zona speciale come HK-1720. Non si sapeva ancora in che modo avesse fatto a scappare. Da come veniva presentato, sembrava un mutante molto pericoloso che non aveva intenzioni amichevoli nei confronti dell’uomo.

Non erano ancora stati ritrovati né il mutante né i cittadini coraggiosamente intervenuti per placare la sua ira, nonostante i numerosi sforzi della polizia. Furono queste le informazioni monotamente riferite dalla presentatrice del TG.

Dopo cena Michele riprese dalla soffitta il suo vecchio libro di storia delle superiori e lo aprì al capitolo che parlava della guerra tra umani e mutanti.

Nell’anno 2048 il governo statunitense aveva concesso l’autorizzazione a condurre esperimenti sulla razza umana, per migliorarla, come era stato fatto pochi decenni prima con le piante.

Le cavie per gli esperimenti erano stato carcerati e nemici politici. Gli esperimenti non erano andati a buon fine: erano stati creati degli esseri disgustosi, dotati di tre occhi verdi, di una pelle rossastra e di una straordinaria resistenza ad urti e colpi di ogni genere. Almeno questi furono gli effetti scoperti, ma si riteneva che i mutanti avessero altri aspetti che li diversificavano dagli umani determinati dall’esposizione, anche se controllata, ai pericolosi raggi gamma.

I mutanti non dettero il tempo agli uomini di accertare questa teoria. Si ribellarono. Si ribellarono alla razza umana. Fortunatamente le poche migliaia di mutanti erano niente in confronto agli otto miliardi e mezzo di terrestri; quindi la guerra fu vinta da questi ultimi, anche se si contò più di un milione di morti.

I pochi mutanti superstiti vennero assegnati ad una cosiddetta “zona speciale”, nel sud della Francia, dove venivano studiati e controllati.

L’inquietudine che Michele aveva provato tornando a casa dal luogo dell’aggressione aumentò considerevolmente dopo la lettura del capitolo del suo vecchio libro. Fortemente turbato decise di andarsene a dormire. Fu una notte insonne quella che attendeva Michele, in parte per la sua inquietudine, in parte per gli strani rumori che venivano dalla cantina.

La mattina dopo si svegliò, come al solito, verso le dieci: lavorava come cameriere in una taverna non lontana da casa sua e la presenza dei camerieri era prevista per le undici affinché potessero prepararsi al servizio del pranzo.

Si trascinò stancamente giù dal letto e andò in cucina. Rimase sorpreso: di solito sua moglie gli lasciava la colazione sul tavolo, accompagnata da un cappuccino. Oggi niente. Solo briciole. In più per terra c’era un piatto rotto. Strano. Molto strano. La sua inquietudine della sera prima aumentò ancora.

Michele rimase un attimo in silenzio. Già si stava rilassando, stava per raccogliere i cocci del piatto, quando… Un rumore incomprensibile scosse l’aria. Michele cercò di autoconvincersi che fosse stata qualche porta o finestra che aveva dimenticato di chiudere.

Tornò il silenzio. Sentì un altro rumore, distinto stavolta, un rumore di passi.

Michele guardò l’orologio: le dieci e venti. Sua moglie era a lavoro. Sua figlia era a scuola. Chi era? Il rumore di passi si faceva più forte.

Michele cercava di indietreggiare. Non ci riusciva.

Davanti a lui c’era il mutante HK-1720.

Il cuore di Michele si fermò. Era stordito dalla paura. Non ragionava più.

“Vattene, vattene via!” disse Michele, cercando un tono deciso.

Il mutante si avvicinò.

Michele indietreggiò. Prima lentamente. Poi corse, cercando di guadagnare l’uscita della casa. Aveva passato di un paio di metri l’uscio, quando il mutante lo prese per un braccio.

I tre occhi si illuminarono di un verde vivo. L’ultima cosa che Michele vide fu la stessa luce accecante che aveva visto il giorno prima.

HK-1720 corse via, in mezzo alle campagne, in cerca di un posto sicuro.